xmanIdeale prosecuzione di X-Men- Conflitto finale (Brett Ratner, 2006), Wolverine-L’immortale si è rivelato un film deludente, che non fa presagire nulla di buono per il personaggio del mutante James Howlett detto Logan, nato nel’74 sulle pagine dei comics Marvel (Len Wein, testi; Herb Trimpe, disegni), già protagonista assoluto in X-Men-Le origini:Wolverine (2009, Gavin Hood). La capacità rigenerante e i poderosi artigli d’adamianto, materiale di cui è composta anche la struttura ossea del nostro, subiscono ora la minaccia di un nemico particolarmente insidioso: una serializzazione improntata a schematizzare le caratteristiche psicologiche di un individuo sempre in lotta fra umanità e ferinità, dolori del passato e difficoltà esistenziali attuali, quest’ultime proprie di chi è condannato “a vivere per sempre senza una valida ragione di vita”.

Hug Jackman
Hug Jackman
Diretto da James Mangold, regista in egual misura poliedrico e altalenante nei risultati, sceneggiato da Christopher McQuarrie, Mark Bombak e Scott Frank (sulla base della miniserie a fumetti dell’82 scritta da Chris Claremont, per i disegni di Frank Miller), Wolverine-L’immortale appare improntato ad un’estetica a metà strada fra il cartoon e il film d’azione, ma soprattutto si distacca del tutto dalla originaria saga degli X-Men: il disagio dei mutanti nell’ adeguarsi alla “normalità”, anche facendo leva sulle loro caratteristiche di esseri “diversi” per poter essere accettati dalla società, si traduce qui in una caratterizzazione monodimensionale, che assume rilevanza solo grazie all’indubbio carisma del protagonista Hugh Jackman.
La citata tematica si risolve sbrigativamente dapprima in un confronto pseudo spirituale fra Logan e l’amata compagna Jean Grey (Famke Jassen), più presente da morta che in vita, poi nel contrasto fra il pragmatismo spicciolo, proprio del personaggio, inframmezzato da qualche nota ironica, e il codice etico- comportamentale della tradizione nipponica, con uno stridente accostamento della sua figura a quella del Ronin, il samurai senza padrone.

Rila Fukushima
Rila Fukushima
La storia ha inizio infatti con un prologo/flashback in Giappone, durante la II Guerra Mondiale, poco prima che Nagasaki subisse il lancio della bomba atomica, quando Logan (Jackman) salvò un giovane soldato da morte imminente, per poi tornare ai giorni nostri, nel territorio dello Yukon, dove il nostro eroe si è rifugiato lontano da tutto e da tutti, tormentato dai ricordi e carico di rabbia a stento trattenuta.
Viene richiamato al vivere civile da una ragazza, Yukio (Rila Fukushima), che lo conduce con sé a Tokyo, al capezzale del potente industriale Yashida (Haruhiko Yamanouchi), l’uomo salvato da Logan anni addietro, che ora vuole contraccambiare offrendogli la possibilità di divenire un essere normale.
Non è che l’inizio di una storia ricca di misteri ed intrighi in cui si troverà coinvolta anche la nipote di Yashida, Mariko (Tao Okamoto), ed avrà inoltre il suo ruolo determinante Viper (Svetlana Khodchenkova), mutante dai baci letali…

Svetlana  Khodchenkova e Tao Okamoto
Svetlana Khodchenkova e Tao Okamoto
L’incedere della narrazione appare lento e prevedibile, con una regia il cui unico guizzo creativo consiste nell’assecondare in tutto e per tutto una scrittura incolore, dando vita ad un ensemble ondivago fra thriller, dramma ed azione, senza alcuna mediazione o concreta definizione stilistica, se non scimmiottare un autore come Nolan per tracciare l’ormai consueto percorso dell’eroe in cerca della sua identità, fra discesa agli inferi e resurrezione. Le stesse sequenze d’azione, da un funerale particolarmente movimentato ad un inseguimento sul “treno proiettile”, le quali restituiscono un acidulo sapore anni’80, non appaiono particolarmente riuscite nel loro veloce e confuso svolgimento, più caciarone che propriamente coinvolgente.
Le varie interpretazioni attoriali, in particolare Okamoto e l’imbarazzante Khodchenkova, sono ben distanti da qualsivoglia empatia ed espressività, evidenziando ad ogni sequenza come l’intero film si regga sulle possenti spalle di Jackman, capace di apportare una buona dose di pathos e dare un senso compiuto al termine drammaturgia, altrimenti privato di ogni plausibilità narrativa.

In conclusione Wolverine- L’immortale è un film più inutile che brutto (bella lotta), coerente con la programmata presa per i fondelli grazie all’uso (ancora una volta in facile rima con abuso) di un 3D del tutto superfluo, e per l’inserimento del solito “arrivederci alla prossima puntata” dopo i titoli di coda. L’ennesima dimostrazione, mai definitiva purtroppo, di una brutta tendenza hollywoodiana, fatte salve le dovute eccezioni: sfruttare sino alla consunzione e totale perdita d’identità o caratteristica dominante, personaggi le cui potenzialità si sono già espresse, con successo, al di fuori del mondo cinematografico, e qui insabbiarle in una logica di compromesso fra fruibilità spettacolare buona per ogni palato ed un minimo di considerazione per le tipicità originarie, pur nell’ottica di una benvenuta reinterpretazione. Errare è umano, perseverare è noioso.

Una replica a “Wolverine-L’immortale (3D)”

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